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Da cosa è nata la rivoluzione degli ultimi 15 anni, che ha visto condannare senza appello l’utilizzo di cereali ricchi d’amido nel pet food e l’utilizzo delle proteine tradizionali? Tutto sembra essere nato a partire da un caso eclatante accaduto negli USA: nel 2007 la contaminazione con melamina di una grossa partita di mais proveniente dalla Cina portò all'intossicazione grave (e, in molti casi, ahinoi, letale) di migliaia di cani e gatti, in quanto questo mais era stato utilizzato per la produzione di pet food da numerose aziende americane. A seguito delle numerosissime segnalazioni alle autorità, ebbe luogo forse il più grande recall commerciale del pet food mai accaduto negli USA.
A seguito di questo episodio, i proprietari di cani e gatti, preoccupati per la salute dei loro amici a quattro zampe, hanno iniziato a mettere sotto accusa tutti gli elementi costitutivi del pet food, in particolar modo le loro due componenti più importanti: i carboidrati e le proteine.
Ciò ha portato ad un cambiamento epocale del settore, con centinaia di aziende del pet food di tutto il mondo che hanno lanciato sul mercato formule grain free, ovvero senza cereali, e/o con proteine alternative a quelle tradizionali, con risultati oggettivamente nella maggior parte dei casi positivi. Nello stesso tempo, ha portato a un altro fenomeno epocale: il ritorno alle diete casalinghe, con il fiorire di varie formule, la più nota la BARF (Bones And Row Food diet = dieta basata su osso e cibo crudo).
Tutte queste diete hanno alla loro base una logica elementare e inattaccabile: tornare ad un’alimentazione il più possibile vicina a quella di un cane selvatico, sempre avendo ben chiaro che ciò è raggiungibile solo in parte, visto che i nostri cani non possono certo andare a caccia delle loro prede. E non possono, come i loro progenitori lupi, cacciarle nelle foreste e divorarle intere, compresi pelliccia, carne, scheletro e visceri.
Attualmente, il cane dipende totalmente da noi e siamo noi a dover provvedere alla loro alimentazione, non certo fornendo loro animali interi da sbranare, ma utilizzando gli alimenti a nostra disposizione. Ed è qui che nasce il vero problema: gli alimenti a nostra disposizione NON sono quelli che la natura ha previsto, ma quelli che l’uomo produce, indiscutibilmente lontani dagli alimenti naturali.
Qualsiasi cibo noi mangiamo o diamo ai nostri pet non assomiglia lontanamente a ciò che la natura ci ha originariamente donato. Purtroppo, ciò non riguarda solo le pur importanti caratteristiche organolettiche, che rendono i cibi profumati e gustosi, ma coinvolge i metodi di produzione: l'allevamento intensivo, infatti, per garantire produzioni sempre più abbondanti, non può fare a meno della chimica e della farmacologia.
Questo uso sempre più massiccio di fitofarmaci, diserbanti e fertilizzanti non solo altera sapori, consistenza e profumi, ma provoca la permanenza di residui in tutti gli alimenti in percentuali variabili.
Cani e gatti di tutto il mondo sono ammalati? E’ colpa dei cereali? E’ colpa della sensibilizzazione alle proteine più comuni? La risposta molto netta è NO, anche se molte diete grain free e fondate su proteine “nuove” migliorano nettamente la salute di cani e gatti.
Queste diete migliorano il quadro generale per un motivo impensabile: l’assenza di un residuo tossico dell’ossitetraciclina, antibiotico pressoché scomparso dagli allevamenti italiani, ma ancora largamente e legalmente utilizzato in molte parti del mondo nell’allevamento intensivo, specie del pollo e del tacchino. Questo antibiotico, di per sé non tossico e molto efficace per prevenire e bloccare le patologie dell’allevamento intensivo, diventa in vitro sorprendentemente tossico quando si deposita nell’osso legandosi al calcio.
Tutto ciò che contiene farina d’osso (e moltissimi mangimi ne contengono) diventa tossico ed
L'insorgenza di disturbi da reazioni avverse al cibo, in relazione alla possibile presenza di residui farmacologici nelle farine di carne di allevamento intensivo è il fil rouge che lega ogni studio del Dipartimento Ricerca e Sviluppo SANYpet, riconoscendoli come la causa fondamentale delle decine di intolleranze alimentari che affliggono i nostri pet. Di questo fatto si sono ormai accorti tutti e ciò ha causato la ricerca del colpevole, mettendo sotto accusa pressoché tutti i componenti fondamentali del pet food e creando una situazione di tutti contro tutti, ciascuno convinto di avere scoperto il vero colpevole.
Peccato che nessuna dieta dia risultati costanti, e tutti sappiamo che ogni pet food, ma anche le diete Raw, Barf, casalinga, grain free, dieta paleo, Pescatarian, NON DIANO RISULTATI COSTANTI, evidenziando improvvisi ritorni ai più svariati disturbi senza che se ne possa capire la ragione.
Ecco che ciascun compagno di vita di un pet si ritrova a cercare continuamente nuovi modelli di alimentazione senza risultati costanti
Eppure, la ragione è semplice: quando si introduce l’osso nella dieta, qualunque essa sia e se questo è contaminato dall’ossitetraciclina, le reazioni sono inevitabili, coinvolgendo gli organi più disparati.
Gli alimenti grain free stanno invadendo il mondo e, nello spazio di 15 anni, sono diventati protagonisti assoluti, scalzando tutte le multinazionali dalle posizioni di eccellenza dei pet shop. La formula, come dicevamo, è vincente perché è legata all’abbinamento dell’eliminazione dei cereali con l’utilizzo di proteine “nuove”. Eppure abbiamo visto che entrambe le motivazioni non sono corrette. So che è temerario affermare tutto ciò, ma vi sono prove molto chiare di quanto affermo. Esaminiamole:
Le ricerche, effettuate da ricercatori che chiaramente non hanno interessi sull’argomento (come potrebbero avere, invece, aziende di pet food), sono due, ed entrambe precise: nella prima ricerca, pubblicata già nel 2013 dai genetisti dell'università di Uppsala, Lindblad-Toh e colleghi, dell’Università di Uppsala in Svezia, è stato analizzato l’intero genoma di 12 lupi e 60 cani di razze diverse, identificando 36 regioni del genoma che differenziano i primi dai secondi, uguali, invece, in tutte le razze considerate.
Proprio riguardo ai geni deputati alla produzione di amilasi, gli studiosi hanno scoperto che i cani ne possiedono da 4 a 30, mentre i lupi soltanto due. Ne risulta che i primi sono 5 volte più facilitati dell’assimilazione di questo alimento rispetto ai secondi.
Se ci lanciamo nell’investigazione in cerca di prove per scagionare o condannare l’accusato, una di queste è sicuramente l’aspetto delle feci: se esse sono eccessive, malformate o liquide, è segno che il cane non le ha digerite correttamente, ma se sono formate, compatte e poco abbondanti, dubbi non possono esserci.
E una nuova recentissima ricerca rinforza ulteriormente la prima, dimostrando che l’agricoltura cambiò il lupo in cane. Quando, da cacciatori e raccoglitori, una parte degli uomini si sono trasformati in agricoltori, ciò deve aver portato branchi di lupi che vivevano attorno a loro, in tempi di carestia di prede, ad “accontentarsi” di cibarsi della spazzatura che conteneva resti di cereali, fecole e alimenti ricchi di amido. Ciò deve aver generato in certi individui la variazione del loro genoma, portandolo ad essere in grado, progressivamente, di digerirli.
A stabilirlo è uno studio pubblicato su "Open Science" della Royal Society di Londra e condotto da ricercatori delle Università di Rennes e di Grenoble, del CNRS di Lione, in Francia, e dell'Università di Uppsala, in Svezia, che hanno ricostruito l'evoluzione della capacità dei cani moderni di digerire gli amidi.
Prendendo spunto dalla pubblicazione precedente, che aveva mostrato che, mentre quasi tutti i lupi, sciacalli e coyote hanno due sole copie del gene che codifica per l'amilasi pancreatica (Amy2B), il principale enzima che in questi animali permette la digestione degli amidi, la maggior parte dei cani ne ha, invece, fino a 40 copie. Non si avevano, tuttavia, dati dell’epoca in cui si è manifestata questa amplificazione genica, con ipotesi che andavano dalla preistoria all'antichità classica per arrivare all'epoca delle numerose selezioni delle razze canine, del XIX secolo.
Invece ora Organe Ollivier e colleghi hanno ora estratto del DNA antico da campioni di ossa e denti dei resti di 13 antichi lupi e cani provenienti da siti archeologici sparsi in tutta l'Eurasia e risalenti ad epoche diverse. Il risultato delle analisi ha mostrato un quadro senza una chiara progressione cronologica, spiegabile solo attraverso il diverso comportamento di diversi gruppi umani, quelli che sono rimasti cacciatori o raccoglitori e quelli che si sono dedicati all’agricoltura.
Le conoscenze sull’espansione progressiva e a macchia di leopardo dell’agricoltura nell’Eurasia confermano il motivo di una progressione del patrimonio genetico del lupo/cane irregolare, con campioni dotati di quantità geni specifici molto diversi: quelli risalenti a oltre 8000 anni fa avevano solo due copie del gene, quelli di 5000 anni fa o meno ne avevano come minimo 7 o 8, quelli del periodo intermedio ne avevano da 2 a 7 secondo il sito di provenienza.
I cani domesticati fra i 15.000 e i 10.000 anni fa, se vivevano degli scarti alimentari dei loro compagni cacciatori-raccoglitori, hanno proseguito ad avere una dieta prevalentemente carnea, mentre quelli che hanno vissuto ove si era introdotta agricoltura hanno visto la moltiplicazione del gene Amy2B e la loro capacità di digerire gli amidi.
Interessante notare che le uniche due razze di cani che hanno ancora due sole copie del gene Amy2B sono gli husky siberiani e i dingo, che hanno vissuto con popolazioni che fino a tempi molto recenti hanno avuto una dieta basata quasi esclusivamente su prodotti della pesca o della caccia.
Queste due razze rappresentano, in pratica, una controprova inconfutabile che il cambiamento genetico del cane è stato determinato dal cambiamento delle abitudini alimentari degli esseri umani.
I fatti, non semplici chiacchiere, sono questi. Poi, ciascuno è libero, come sempre, di scegliere ciò che crede.
Fondatore e responsabile Centro Ricerche SANYpet Medico veterinario ed esperto internazionale in patologie di origine alimentare